Negli ultimi decenni, in un mondo sempre più interconnesso, l’economia e il mercato sono cambiati profondamente, spingendo sempre di più le aziende verso l’internazionalizzazione.

Come spiega smeup, internazionalizzazione si intende “un processo di apertura ed espansione al di là del proprio mercato nazionale intessendo rapporti economici con imprese, consumatori e istituzioni estere”.
In sostanza, questo termine identifica il processo attraverso cui “un’azienda potrà vendere i propri prodotti all’estero, aprire una sede in un altro Paese, stringere partnership con aziende internazionali, spostare la produzione all’estero, trovare fornitori di un’altra nazione o ancora trovare fonti di finanziamento all’estero.”
Sicuramente, la globalizzazione ha creato grandi opportunità per le aziende, ponendo però loro anche sfide complesse. Questo è ancor più vero per l’economia italiana, caratterizzata da un alto numero di Piccole e Medie Imprese non sempre attrezzate per affrontare nel migliore dei modi i mercati internazionali.

Tuttavia, per un paese fortemente esportatore come l’Italia, la capacità delle aziende di internazionalizzarsi è fondamentale, così come sono fondamentali gli strumenti messi a disposizione dalle istituzioni a sostegno dell’internazionalizzazione, al fine di sopperire alle debolezze strutturali dell’economia italiana. In questo senso, il Ministero degli Esteri e ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, forniscono alle imprese diversi strumenti: dai servizi di informazione sui mercati esteri, alla formazione gratuita per le imprese, ai servizi di consulenza per l’espansione dei business all’estero.
Accanto a queste istituzioni, si affiancano alcune società a partecipazione pubblica, come Sace, partecipata al cento per cento da Cassa Depositi e Prestiti e la Società italiana per le imprese all’estero – Simest, a propria volta controllata da Sace. Queste società hanno il compito di sostenere la crescita all’estero delle aziende italiane, attraverso strumenti finanziari come l’assicurazione dei crediti, la protezione degli investimenti, l’erogazione di finanziamenti e la partecipazione al capitale di imprese.

L’internazionalizzazione è divenuta inoltre uno dei pilastri della risposta italiana alla crisi economica dovuta alla pandemia. Lo dimostra il Patto per l’Export, lanciato a giugno 2020 dal Ministero degli Esteri assieme ad istituzioni e associazioni di categoria. Il Patto aveva come obiettivo il rilancio delle esportazioni, concentrandosi su sei aspetti: il re-branding nazionale, la formazione e l’informazione, l’e-commerce, il sistema fieristico, la promozione integrata, la finanza agevolata.
I risultati si sono visti: da un lato, infatti, c’è il successo delle manifestazioni fieristiche organizzate in Italia a partire dalla fine dell’estate. Dall’altro, in risposta alla pandemia, oltre il 35% delle grandi aziende italiane ha già adeguato le proprie strategie di internazionalizzazione o sta prendendo in considerazione la possibilità di farlo. Lo dimostra l’approfondito studio “Italy goes global”, commissionato da HSBC e coordinato dal professor Daniele Marini dell’Università di Padova.

Lo studio analizza le aziende italiane con ricavi superiori a 200 milioni di euro. Secondo lo studio, infatti, “le imprese con oltre 100 dipendenti rappresentano il 64,5% del totale delle esportazioni italiane, e più di un terzo delle esportazioni (34,3%) deriva da aziende con oltre 500 dipendenti, di cui una su quattro (23,3%) esporta oltre il 75% del proprio fatturato.”
Non stupisce come i settori tipici del Made in Italy siano fra quelli che “generano maggiori esportazioni. Tra questi figurano in particolare il settore alimentare (19,8%), della produzione di macchinari (11,5%), automotive (8,9%) e tessile (6,3%)”.
Lo studio dimostra che per molte aziende la risposta alla pandemia è stata una trasformazione della propria presenza all’estero. “Tra le principali aree di cambiamento – si legge nel rapporto – vi è un maggior rafforzamento dei canali e-commerce per la vendita di prodotti e servizi, la creazione di joint venture e la sottoscrizione di accordi all’estero”.

Al contempo però la crisi “ha costretto le aziende a ridurre l’approvvigionamento di prodotti e servizi dall’estero e le aperture di nuove filiali commerciali.” In particolare, i diversi lockdown hanno reso evidente la necessità di accorciare le catene di produzione.
Per quanto riguarda infine i mercati di sbocco citati dalle aziende, cresce l’importanza della Germania (che passa dal 27,7% del 2019 al 31,7% del 2020), mentre “la rilevanza della Francia si è ridotta (dal 23,3% al 22,5%), con una tendenza simile registrata anche per la Spagna, paese che occupa la quarta posizione (dal 10,1% all’8,3%). La popolarità del Regno Unito, al terzo posto, è passata dal 9% al 9,4%”, spiega Luca Losito di Wall Street Italia. Tra i mercati extra UE, il Nord America (USA, Canada, Messico) registra l’aumento più consistente (dal 5,2% al 26,9%), con trend positivi evidenziati anche per i paesi Arabi e Medio-Orientali, Cina, America Centro Meridionale e Australia.